Già in forze negli “Oblivion”, Davide Calabrese e Lorenzo Scuda riportano a teatro “Far finta di essere G”, omaggio alle canzoni e ai testi di Giorgio Gaber e Sandro Luporini.
Sembra ieri, ma sono già passati 13 anni da quando Far finta di essere G esordiva per mano degli “Oblivion” Davide Calabrese e Lorenzo Scuda. Lo spettacolo - che torna ora in scena al Teatro Leonardo di Milano (8–12 Novembre) in un nuovo allestimento completamente rinnovato - è una “follia teatrale” che unisce l’incontenibile estro “made in Oblivion” all’arte di Giorgio Gaber e Sandro Luporini.
Incuriositi, abbiamo voluto approfondire con Davide Calabrese i dettagli di questa “relazione pericolosa”.
Quando e come è nata l'idea di dedicare uno spettacolo a Giorgio Gaber?
Sono passati tredici anni ed allora eravamo giovani e inesperti. Serviva uno spettacolo simpatico ma serio, intelligente ma non polemico, elegante ma non vistoso.
Abbiamo pensato a Gaber credendo fosse materiale facile da fare. Due idioti.
Qual è stato il percorso che dagli Oblivion ti ha portato a Gaber? E’ più facile descriverti il percorso che Gaber ha tracciato per gli Oblivion, visto che senza lo studio del suo materiale non avremmo mai saputo scrivere canzoni efficaci.
E qual è il punto di contatto fra il teatro-canzone e la messa in scena degli Oblivion?
Il teatro-canzone è pensato per un cantante e noi siamo in due (quando va male).
Il teatro canzone parla di temi importante e noi facciamo solenni cazzate.
Il teatro-canzone è una narrazione lineare dall’inizio alla fine e i nostri spettacoli sono un gran casino…nessun punto di contatto, direi.
“Far finta di essere G” è alla terza “incarnazione”. Come è cresciuto lo spettacolo in questi 13 anni?
Abbiamo costumi bellissimi, finalmente.
Abbiamo un disegno scenico, finalmente.
Abbiamo una direzione finalmente e abbiamo buttato i brani che non servivano (finalmente).
Insomma, lo spettacolo è cresciuto grazie alle Manifatture Teatrali Milanesi e a Giorgio Gallione.
Noi ci occupiamo delle involuzioni: siamo all’opposizione.
La scelta delle canzoni è avvenuta in funzione dello spettacolo oppure è lo spettacolo che è cresciuto “attorno” alle canzoni?
I sogni aiutano a vivere meglio.
Quanto ha pesato “l'icona” Gaber nella scelta delle canzoni? O meglio, ci sono brani che dovevano essere fatti per forza?
L’icona Gaber non ha pesato minimamente nella scelta delle canzoni, ma nella scelta dei manifesti sì: la Fondazione Gaber, in tanti anni di felice collaborazione, ci censurò solo una volta la proposta di una locandina nella quale figuravamo vestiti da clown e contemporaneamente da Gaber. Era troppo.
In questi anni molti sono stati gli spettacoli e le occasioni per omaggiare o ricordare Gaber. Ne hai visto qualcuno che ricordi con particolare entusiasmo?
No. Ma ho visto il vero Gaber tante volte da teen-ager ed è stata la migliore spinta per fare questo mestiere.
I testi di Gaber e Luporini sono molto legati agli eventi e alla società degli anni'70/'80. Non pensi ci possa essere il rischio, a rappresentarli oggi, di portare in scena solo una “foto ricordo” di quei tempi? E quale può essere la messa in scena ideale che scongiuri questo rischio?
Per noi Oblivion è facile superare questo ostacolo: si prende la canzone, si cambia le parole e nessun si accorge di nulla.
Da spettatore, qual è il tuo primo ricordo di Giorgio Gaber?
“Qualcuno era comunista”.
Dal vivo, anche se avevo quattordici anni, faceva in platea l’effetto di scarica di mitra.
Ad ogni strofa cambiava caricatore.
Applausi, gente che se ne andava, mugugni, borbottii e urla di approvazione.
Mai più visto niente di così elettrizzante e controverso.